Solo. Pensieroso. Immobile, alla fermata dell’autobus che lo riporterà a Roma. È l’ultima immagine che ci resta dell’ennesima avventura di Zeman, la quarta, alla guida del Foggia. Un’istantanea inequivocabile. Esplicativa dell’amarezza con cui il boemo lascia la città che più lo ha venerato nel corso della sua ultra cinquantennale carriera da allenatore.
Titolo di coda di una stagione iniziata nel segno di un entusiasmo ritrovato per il ritorno a casa del duo che ha reso celebri i colori rossoneri, e finita col rammarico per l’ennesima prova d’inconsistenza da parte di chi, adesso, promette a vuoto di far tornare grande il Foggia.
“Il contratto di rinnovo l’ho firmato in bianco. La verità è che non c’erano le condizioni per lavorare bene”. Quella di Zeman, da sempre, è una battaglia ideologica. Chi ne dubita, della sua vicenda umana e sportiva ci ha capito poco o nulla. Il boemo, tutt’ora, rappresenta un calcio andato. Surclassato dai proclami egotici di allenatoruncoli che alle proprie squadre non hanno lasciato altro che trofei. Che inezia!
Del campionato appena concluso, ad ogni modo, rimane il riso dolce per aver vissuto e sognato, nuovamente, sulle ali d’un calcio d’altri tempi, e quello amaro per ciò che poteva essere e non è stato. “Del senno di poi, del resto, si può sempre ridere. E anche di quello di prima, perché non serve”.